Formula per Cecchi (1943)

«Lettere d’oggi», a. V, nn. 1-2, Roma, gennaio-febbraio 1943, pp. 69-83, poi in W. Binni, Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento cit. e in W. Binni, Poetica e poesia. Letture novecentesche cit.

Formula per Cecchi

Cecchi ha esordito con un volume di versi (Inno primo, 1908) e quasi contemporaneamente con una vasta attività di critico: un volume su Kipling (1910), uno sul Pascoli (1912), uno di Studi critici e con la collaborazione alla «Voce», cui in quel primo periodo potevano legarlo interessi morali e problemistici allora in lui piú giovenilmente evidenti.

I versi, ancora nella tradizione carducciana, e con vicino vivo l’esempio dell’Alcyone, non ci offrono altro indizio notevole se non una dissoluzione della pienezza del maestro negli aggettivi che insinuano quel misto di sensibilità e di trovata che sarà poi sempre piú la qualità essenziale della sua arte

(scrosciavan le frondi con tuono di mare, barbagli

solcavan le fronti de’ giovini boschi, ma v’era

a tratti, qual pace in un mare

un tremolio d’erba mite).

O piú decisamente risentivano quell’aria di rivolta, di approfondimento immediato, di lirismo, implicante una sensibilità piú istintiva, un concorso dell’intelligenza piú raffinata e un certo atteggiamento autobiografico che si colloca fra i primi tentativi di Ungaretti, le prove dei futuristi meno ortodossi, la brusca maniera di Jahier. Le poesie furon continuate ancora nei primi anni del secondo decennio del secolo sulla «Riviera ligure» e quanto piú si allontanavano da una ricerca di puro decoro, tanto piú precisavano, non per virtú lirica, ma proprio per il contenuto grezzo, il mondo di Cecchi, la sua situazione di osservatore allibito e incuriosito della struttura apparente delle cose e insieme del loro mistero, del loro sottofondo che gli occhi comuni non vedono:

A un tocco di febbre sono entrato,

camminando nell’afa di luglio,

a un tratto sotto un colonnato

di nevi.

Sul verde pavimento lacustre

zampillano fermi ciuffi di luce.

E un vento di ghiaccio e un rombo

piú in fondo, piú in fondo mi conduce.

Che par quasi un lontano annunzio di Ossi di seppia, ed è l’indizio di una vocazione ad un potere di sogno non languido, non puramente fiabesco, ma nella trama della visività, attraverso una sensibilità nuova piú acuta, piú intelligente e magari a volte anche piú sofistica. Questo atteggiamento nuovo consiste nello scomporre gli aspetti delle cose nella loro struttura, con una microtomia quasi scientifica, consiste nel trovare nelle cose delle relazioni sottili e impensate, per un avvicinamento nuovo alla vita non impegnativa in senso romantico, non formale in senso classico, ma per suggestioni e lucidi arabeschi: come Cecchi, meglio di qualunque altro scrittore contemporaneo, realizza nella sua prosa d’arte.

Ma l’attività poetica aveva in Cecchi qualcosa di febbrile, mancava di quelle possibilità di pieno impiego dell’intelligenza che urgeva nella sua personalità. Vi fu cosí il periodo di una predominante attività di critico letterario: fu addirittura un’orgia di intelligenza, una profusione di intuizioni geniali e di tentativi sistematici («a giudicare una nuova poesia ci vorrebbe una nuova filosofia» dice nel saggio sul Pascoli), in cui non mancavano però né uno svolgimento interiore piú da artista che da critico né una particolare sensibilità per un certo mondo poetico che non è quello cristallino dei classici né quello di un romanticismo piú enfatico. Kipling («l’amore delle cose», «della natura»), Chesterton, i francesi moderni, gli inglesi piú allucinati e visionari, i prodotti di eccezione, ma tutti come avvolti in un velo familiare, in una trasposizione di sanità, di terra italiana. E qui si chiarisce un altro carattere tipico di Cecchi: egli esaspera dei motivi eccezionali, dei raffinati misteri, ma insieme li media, li rende vicini a noi con un’aria confidenziale, nostrana, che pare rispondere ad un bisogno di chiarezza, di classicità, di semplicità (e in verità non è mai oscuro, non è mai contorto), ma piú serve ad insaporire quelle impressioni piú acri o piú profumate, in una pastosità casalinga. E del resto, subito dove il motivo di eccezione si fa sadismo voluto, gusto pratico dell’eccezione, realismo esagerato e morboso, Cecchi reagisce immediatamente con la sua sobrietà e la sua concretezza di toscano. Come quando in America amara bolla di «lurida patologia» (che è giudizio perfino eccessivo) Uomini e topi di Steinbeck. E cosí nel lavoro sui trecentisti senesi, dopo aver accettato l’interpretazione del Berenson, secondo cui quegli artisti tendevano a creare «figure che suggerivano la vita incorporea in effetti spaziali che evocano l’al di là e l’infinito» e avere cosí ricercato il loro fondo metafisico, la loro raffinata idealità, subito si rivolge anche a valutarne il colore, le qualità tecniche, il senso di concretezza, come farebbe un artista solido, amante della classicità, del mestiere e della realtà, lontano da intenti ideologici.

Raggiunto il suo lavoro piú energico e costruito nella Storia della letteratura inglese nel sec. XIX rimasta ferma al I volume (1915), Cecchi, che aveva fin allora scritto piú che altro sulla «Voce», divenne piú propriamente giornalista di terza pagina, scrittore di «saggi» che per la loro misura, il loro giro costruttivo, hanno di fronte indubbiamente gli esempi dei tipici saggi inglesi, in cui un critico non impianta subito un problema, non affronta lo scrittore direttamente per darne un giudizio di valore, secondo il tipo della critica desanctisiana e idealista, ma lo gusta e rigusta nel suo paesaggio, ne prende spunto per delle divagazioni, per delle trovate personali che stanno tra il puro pezzo di invenzione e il rigido articolo critico.

Critico-letterato si può dire, a questo punto, Cecchi (definizione sommaria che si può usare anche per altri scrittori del nostro tempo: un Baldini, un Pancrazi, ad esempio), critico-letterato che andava verso il letterato puro, ma conservava a quest’ultimo certe caratteristiche del primo e soprattutto la spietata luce dell’intelligenza, la curiosità del conoscere.

Nel 1920, nell’immediato dopoguerra, mentre si precisava il rondismo accanto alla gazzarra di una letteratura commerciale che doveva aggravare l’equivoco esistente fra veri scrittori e pubblico, e ridurre ancor piú la letteratura a questioni di élite, Cecchi pubblicò il primo volume di Saggi, capricci e fantasie, come poi ha chiamato il suo «genere», Pesci rossi, ai quali seguirono nel 1927 l’Osteria del cattivo tempo, nel 1931 Qualche cosa, poi nel ’33 Messico, nel 1936 Et in Arcadia ego e Corse al trotto, nel 1939 America amara, nel ’41 Corse al trotto vecchie e nuove. La critica letteraria fu allora abbandonata per la critica figurativa, di cui Cecchi aveva già dato un saggio nel 1912 (Note d’arte a Valle Giulia) e in cui ci ha poi dato Pittura italiana dell’800 (1926), Pittori trecentisti senesi del ’300 (’28), Lorenzetti (’30), Giotto (’37). Un cambiamento anche questo interessante se si interpreta come una accentuazione, in quel periodo, del suo gusto visivo, una precisazione della sua sensibilità soprattutto diretta a vedere, a sentire in primo piano i valori pittorici, coloristici.

Pesci rossi sono contemporanei alla «Ronda», la rivista in cui si sono ritrovati i «letterati puri» italiani tra il ’19 e il ’23, e che ha portato un gusto piú strettamente letterario, classicheggiante, neoleopardiano dopo lo stile generico e moralistico della «Voce». Il trionfo di Pesci rossi fu cosí il trionfo di quel gusto che in quel libro trovava il suo capolavoro e qualcosa di piú, di piú vasto e di meno accademico. Da quel primo libro a Qualche cosa non vi è tanto svolgimento di nuovi atteggiamenti, di nuovi motivi, quanto affinamento della costruzione, precisazione della prosa ivi manifestata. Già nel primo pezzo che dà il titolo al libro, c’è il risultato, c’è la poetica, c’è la natura di Cecchi. Egli dopo la costrizione della critica ha come liberato il suo fondo piú vero, e l’ha avviato ad esprimersi in una forma che della critica mantiene la capacità di lucida ricerca dopo essersi trovato una misura, il saggio, pienamente adatta alla sua natura.

Cecchi ha attuato in Pesci rossi un tipo di prosa nuova, in cui è protagonista una specie di sensibilità dell’intelligenza, un connubio perfetto di queste due qualità: l’intelligenza enuclea nella realtà (e la realtà è tutto, un libro, un pezzo di natura, un personaggio) un motivo originale e lo svolge con un discorso sensibile, di immagini, di riferimenti agli aspetti piú segreti della realtà stessa. Quando questo mezzo di conoscenza sensibile è piú stanco, le due qualità si sdoppiano ed operano isolatamente e si hanno pezzi sofistici, paradossali spesso, in cui è soprattutto ammirevole la bravura, la coerenza dell’intelligenza o invece, piú raramente, pezzi di puro abbandono al colore, alla visibilità, alla descrittività. Quando lo scrittore è ispirato, la sua sensibilità, la sua capacità di vedere, è guidata intimamente da una intelligenza vigile, esperta, che la conduce in un regno di rapporti piú misteriosi e profondi; e la sensibilità li rende chiari, morbidi, evidenti. E l’incanto maggiore nasce da questa collaborazione, nasce dall’aria vitrea, matematica, acre dell’intelligenza e dal calore, dalla concretezza della sensibilità, che si fondono nei momenti migliori in un unico tono. Se prendiamo il saggio iniziale di Pesci rossi, noi ci avviciniamo subito in questa operazione di alta letteratura, scopriamo il metodo di Cecchi: vi sono dei pesci rossi visti in un globo di vetro: ecco il dato primo della sensibilità. Ma non son visti superficialmente, cosí come sono; sono visti nel segreto dei loro movimenti: «Nuotavano con uno slancio, un gusto di inflessioni del loro corpo sodo, una varietà di accostamenti a pinne tese, come se venissero liberi per un grande spazio. Erano prigionieri. Ma s’erano portati dietro in prigione l’infinito. Il piú straordinario però era questo: soltanto visti di profilo eran pesci veri e propri». Ecco l’intervento dell’intelligenza che libera l’immagine dalla sua fissità. I pesci rossi sono l’immagine di altri rapporti piú profondi: «Di faccia eran vecchi mostri arcigni dell’epoca dei Han: draghi millenari imbronciati; una maschera rossa di malinconia impersonale o disumana. Di profilo evocavano canneti e graziose scogliere». E il gusto si accresce nel descrivere, si raffina, si allarga, si muove ormai in un’atmosfera irreale, magica in cui nasce spontanea un’altra immagine, un altro riferimento: i pesci rossi nella loro mostruosità indefinibile suggeriscono, evocano l’immagine dell’Oriente, di un mistero grave di brividi, libero da precise determinazioni; ed ecco che la cultura dello scrittore entra, libera da ogni severità critica, e delle citazioni di poesie giapponesi vengono ad accrescere l’impressione del mostruoso che può essere sempre presente in un idillio orientale: «Tutte le volte che una poesia dell’antica Cina o del nuovo Giappone mi trasportava nell’atmosfera del piú insospettabile idillio, sapevo che bastava guardarvi un po’ meglio e fra l’erba del prato idillico avrei visto luccicare la coda di un drago, e fra i rami dell’arbusto il viso argenteo di uno spettro. Tutte le volte che nell’angolo di una pittura scorgevo il pellegrino o la volpe o il gallo cedrone stringersi, rannicchiarsi come impauriti sotto il dilagare del cielo, sapevo che essi avevano non una, ma mille ragioni di spavento perché quel cielo era davvero troppo bianco e troppo deserto per non essere un cielo serpeggiato di invisibili demoni». Oriente, un polo dell’umanità di fronte a cui è l’Occidente, amante del limite, dell’unità del mondo: «Per noi la fantasia e il sogno hanno da essere soprattutto credibili, organici, penetrabili, abitabili e si direbbe comuni. E per questi altri hanno da essere soprattutto remoti e strani».

Ecco la linea di un saggio cecchiano: uno sviluppo di immagini e di intuizioni dell’intelligenza che si fondono, si aiutano; ecco la linea del suo movimento snello e penetrante, magico e familiare. Ché, oltre a questa coscienza di un mondo in cui fremono piú o meno nascoste delle forze mostruose, paurose, di cui la gente comune non si accorge, c’è sempre pronto un movimento di bonarietà, di scherzo piú apparente che reale, per sciogliere ogni sublimità troppo tesa, per mantenere calore a questo tono discorsivo ricco di tanti fermenti lirici. Entro questi limiti di discorso, carico di lirismo, e continuamente frenato da un elemento di confidenza, Cecchi ha raggiunto una prosa fusa, perfetta, una musica leggera e sostanziosa, un canto interno che vive nei suoi paradossi, nelle sue fantasie, perfino in certi pezzi in apparenza piú tecnici, giornalistici. Sí, in certi estremi compiacimenti stilistici si arriva al calligrafismo (e ad ogni modo all’unico calligrafismo rondista motivato e non ozioso), al gusto della bella scrittura, al rabesco che si bea della propria esile perfezione, ma ci si sbaglierebbe a voler ridurre tutto Cecchi a questo risultato: egli è veramente un calligrafo nei momenti piú fiacchi, in certe descrizioni prive di un motivo piú vissuto, prive, fin dove ciò è possibile, della presenza del suo senso della vita. Certo la sua pagina è eccessivamente piena, carica di preziose trovate, tanto da diventare a volte stucchevole; ma dove la sintesi è piú viva presuppone un suo vivo contenuto poetico, che solo l’ascoltatore inesperto non osserva. Nel Cecchi migliore, dove la sua curiosità è piú alta, dove diventa una nuova forma di conoscenza sensibile, è sempre presente a sostenere la sua bravura una umanità attenta e profonda. Non vi sono in lui dei programmi di vita, ma vi è un nucleo saldo, che già la critica piú profonda ha visto[1]: come una religiosità primitiva, un senso del mistero, dell’orrore quale poteva averlo un augure etrusco, una religiosità fatta di allibimento di fronte alla furia segreta e formidabile che freme sotto le cose, sotto gli aspetti della vita. C’è per Cecchi un averno, un regno demonico, che i suoi occhi vedono trasparire in tutte le manifestazioni della vita. Nei pesci rossi c’è il mostro, «una melanconia mostruosa», nel barocco un fermento sfrenato, un macabro senso di morte sotto l’ornamentazione straricca, in un paesaggio apparentemente normale vi può essere una luce metallica, la fosforescenza di una nascosta putredine: «È un universo (dice di un tempio messicano) prospettato tutto sotto il segno dell’Inferno, circondato ed invaso da quelle violente, cieche forze naturali, che, per se stesse, non sono altro che forze diaboliche». Ecco allora la sua predilezione per le espressioni piú istintive e disumane della natura, per i giardini zoologici, gli acquari, i paesaggi piú misteriosi e convulsi. Ed ecco insieme anche la preoccupazione di limitare questo ribollire naturale, di costringere questo fermento che la sua sensibilità percepisce, in limiti umani, addirittura conformistici e tradizionalistici. Tutta la tensione di Cecchi nasce dallo sguardo che scruta, scompone, rileva luci violente e gelate in una materia paurosa o nella vittoria della forma su gli elementi che la compongono. Cosí è riuscita piú unitaria e coerente la sua arte in Messico e in Et in Arcadia ego, i due libri di viaggi verso due terre ugualmente predestinate al suo amore: la prima in cui egli dà maggiore sfogo al suo amore per il mistero, per la furia segreta della natura, la seconda in cui realizza il suo amore per la finitezza classica, per il trionfo della misura greca sul mondo romantico della natura. Egli ci crea un Messico che, sotto la scorza barocca, spagnolesca o rivoluzionaria, cela l’antica superstizione azteca, la stessa funerea vitalità: «Non è allegro il Messico, ma è meglio che allegro: è pieno di una furia profonda». Mentre la Grecia di Cecchi è tutta pervasa di una dolcezza misurata, di una tenerezza per i suoi colori, per il suo paesaggio. Come in Messico egli ha raggiunto la massima potenza del suo contenuto vitale, in Et in Arcadia ego ha raggiunto il massimo della tenerezza formale, il capolavoro di uno stile fuso, continuo: il mondo della forma pura, della vittoria del limite, non retorica, ma umana, da artigiano di tempi aurei. E si dovrà notare che in questi libri di viaggi (in America amara la curiosità scava con maggiore capziosità e nell’illuminare complessi morbosi, nel fiutare un acre vento di follia fa soprattutto una prova di abilità) l’atmosfera unica dà ai pezzi una continuità, un’accentuazione di motivi che manca agli altri libri di saggi ed attutisce l’impressione di eccessiva «varietà» degli altri libri.

Nell’ultimo libro di saggi Corse al trotto vecchie e nuove (in cui confluiscono saggi già editi nel ’36 col titolo di Corse al trotto[2] e saggi posteriori ad America amara) vi sono dei pezzi in cui si avverte come la ricerca di un maggiore riposo, quasi una maggiore avarizia di intelligenza inventiva che se allontana i pericoli di un preziosismo di «trovate» indica anche una certa possibilità di appiattimento e di diluizione in un «reportage» giornalistico meno incisivo e meno ricco di fantasia e di giustificazioni poetiche. E se già in altri momenti e specie in Et in Arcadia ego (si pensi al pezzo su Laodamia) Cecchi si era servito di motivi nostalgici e di lievi trame di racconto inclinato sentimentalmente per dare alle sue composizioni un’aria piú dolce, carezzevole come una memoria disacerbata, nei nuovi saggi il centro di equilibrio si sposta e affiora piú decisamente il bozzetto, il gusto poco vigoroso del racconto, un certo abbandono a semplici incanti della memoria, e il taglio dei pezzi è piú debole, piú discutibile il loro esito. Vi sono pezzi quasi da «stampe», come il ritorno ad una tradizione toscana piú recente e piú ottocentesca che il Cecchi piú ispirato aveva utilizzato in maniera superiore e funzionalmente alla sua ricerca piú centrale: quasi veri bozzetti di personaggi dell’infanzia, descritti con un brio piú vago e tradizionale come il Dottore, Luigina, Incontro col peccato, la Marmellata. Ed anche i due racconti veri e propri alla fine del libro, Un paternostro e Colloquio (che sono appunto pezzi della serie nuova), se possono interessare come l’avvio di un interesse narrativo nuovo, indicano bene come questo avvio sia piú un’involuzione che una speranza. Cecchi non può uscire dalla sua misura saggistica, non può abbandonare l’appoggio dell’intelligenza critica e questo tentativo di racconto coincide anche con una specie di abbandono sentimentale, di tono nostalgico che sfiora condizioni di estetismo. E già nel troppo famoso Inverno (pezzo di bravura piú suggestivo che convincente) le qualità migliori di Cecchi e il suo stesso fondo poetico di sogno lucido e magico, pur cosí vistosamente presente, si sfacevano in un’atmosfera di struggente nostalgia, in un languore poco controllato e decadentistico.

Ma queste osservazioni sull’ultimo Cecchi, che potrebbero indicare nelle punte meno felici, in una maturità piú stanca e meno fedele all’accordo centrale della sua ispirazione, una probabile conclusione della sua lunga carriera di artista (non del critico che tuttora dà prove eccellenti nei suoi saggi su scrittori inglesi e americani), non tolgono certo alla sua posizione centrale nella prosa d’arte italiana una esemplarità storica e un vigore poetico che rendono Cecchi il prosatore d’arte piú sicuro dopo D’Annunzio: non un semplice stilista, ma, nella pienezza della sua difficile e sottile ispirazione, il vero artista della generazione della «Ronda».


1 E soprattutto il saggio di G. Contini nei suoi Esercizi di lettura (Firenze, 1939).

2 Chi volesse divagare intorno a questo titolo e alla cura dei titoli di Cecchi, troverebbe anche in quella la mano ferma e sensibile del critico letterato, la compresenza vivissima di intelligenza e sensibilità fantastica. Pesci rossi: nell’accostamento rapido delle due brevi parole era la tipica poetica del saggista, la lucida e metafisica evidenza di una realtà comune e carica di sottile mistero. Osteria del cattivo tempo portava una certa inclinazione al pittoresco e al gusto dell’elzeviro rondistico che Qualche cosa correggeva con quell’incontro di grigio e di concreto, come un inizio poetico fermato suggestivamente. Nei libri di viaggi poi l’autore si appoggia ad un nome sentito come cellula fantastica e suggestiva di Messico (quasi come il Bufalo di Montale) o la grazia di tardo umanesimo di Et in Arcadia ego (la fusione perfetta, la dolcezza del libro è già nel titolo), o la ricerca piú complessa e scoperta di America amara di cui Cecchi stesso ci dice: «Mi sedusse per il titolo, un’allitterazione cui davano abbrivo Amica America di Jean Giraudoux, Amusante Amérique di Adrienne de Meüs, America primo amore di Mario Soldati. Seguitando per quella strada, e con nell’orecchio anche il Maremma amara di una canzone del vecchio bracciantato toscano ho forse finito per trovare un’assonanza ormai in ogni senso piú esatta». Una rivelazione del metodo di Cecchi, che rende un titolo importante come una pagina, e ci spiega ancora la collaborazione dell’intelligenza critica della sensibilità poetica, nel mirabile rilievo del sentimento essenziale del tono che unifica in libro i vari saggi che ne fan parte. In Corse al trotto vecchie e nuove Cecchi ha voluto aggiungere al titolo primitivo (che portava la rapidità ariosa del primo pezzo a movimentare suggestiva e squillante tutto il libro, in realtà meno legato ed unitario) una determinazione apparentemente umile e contenutistica, ma in realtà ha come allargato e disteso quell’eco di trotto fantastico, l’ha privato del suo ritmo troppo serrato, adeguandolo meglio alla ricerca e alla natura di rallentamento e di maggiore abbandono che è proprio della sua ultima produzione.